Consulenze Avvocati

 

 

Gt.professionisti, offre un servizio di consulenze legali e pareri legali online in materia stragiudiziale nelle seguenti materie:

 

Diritto civile

Il diritto civile (Lat. Ius civile) è l'insieme di norme giuridiche che regolano i rapporti tra privati. È una branca del diritto privato assieme al diritto commerciale.
Il diritto civile comprende la materia dei contratti, delle obbligazioni, dei diritti reali, delle persone e della famiglia, delle successioni a causa di morte, della responsabilità civile. Invece il diritto commerciale si sviluppa intorno alla nozione di imprenditore e impresa, e si occupa in particolare della disciplina delle imprese organizzate in forma societaria (nonché di altri istituti quali i titoli di credito o i c.d. contratti commerciali, che rilevano soprattutto nei rapporti tra imprenditori).
Il diritto privato è quella branca del diritto che regola i rapporti intersoggettivi tra i singoli consociati (persone fisiche e persone giuridiche), in relazione alla sfera patrimoniale ma anche personale e familiare. È stato chiamato anche "il diritto senza ulteriore definizione".
Il diritto privato disciplina i rapporti fra soggetti che si trovano in posizioni perfettamente paritarie, siano essi privati cittadini o enti pubblici. Il diritto pubblico disciplina invece i rapporti fra soggetti che si trovano in posizioni non paritarie, in cui uno dei soggetti del rapporto è in una posizione di supremazia o autorità sull'altro, costretto a subire le decisioni altrui.

La linea di demarcazione tra diritto pubblico e diritto privato è per certi versi variabile e controversa in quanto ad esempio in alcuni casi lo Stato può avocare a sé la realizzazione di funzioni proprie di un privato sostituendosi a quest'ultimo oppure può utilizzare strumenti privatistici, ad esempio quello societario e contrattuale.

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Diritto amministrativo

Il diritto amministrativo è un ramo del diritto pubblico le cui norme regolano le attività di perseguimento degli interessi pubblici della pubblica amministrazione e i rapporti tra questa e i cittadini (detti privati nella terminologia pubblicistica ed amministrativistica).
La sua genesi è da collegare al principio di divisione tra i poteri dello Stato, ovvero al principio di tripartizione dei poteri elaborato da Montesquieu. Il potere amministrativo, originariamente definito «esecutivo», consiste nell'organizzazione di mezzi e di persone cui è devoluta la funzione di raggiungere gli obiettivi di interesse pubblico definiti dall'ordinamento.
Il diritto amministrativo (come molti altri rami del diritto) consta di:
  • una parte generale (procedimento amministrativo, enti pubblici, contratti, pubblico impiego,ecc.) che tratta di istituti sostanziali e costituisce l'oggetto centrale dei manuali tradizionali;
  • una parte speciale che si interessa della sicurezza pubblica, del governo del territorio, dell'ambiente, delle professioni, dell'urbanistica ed edilizia, ecc.;
  • una parte prettamente processuale, dato che il processo amministrativo è regolato da norme parzialmente divergenti da quelle di altre discipline processuali.
Un importante settore del diritto amministrativo è quello denominato Diritto privato della pubblica amministrazione: si tratta di una complessa ed innovativa disciplina che si viene componendo all'intersezione fra il diritto privato e il diritto amministrativo. In esso operano, accanto alle nuove regole sostanziali (si pensi alla privatizzazione delle fonti, avvenuta con la contrattualizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, cd privatizzazione del diritto del lavoro pubblico, nuovi criteri di riparto della giurisdizione (in particolare quello per materia), i quali sono applicabili a soggetti pubblici o privati, ed anche alle società miste: si pensi a quelle create nell'ordinamento dalle riforme di privatizzazione con le quali i grandi enti pubblici nazionali sono stati trasformati in società per azioni (FS, Enel, Eni, solo per citare i più noti); sul versante locale analoga trasformazione ha interessato le aziende municipalizzate (Acea, Aem, Hera).
Va infine ricordato che alla privatizzazione di soggetti gestori di servizi pubblici si è affiancato il processo di liberalizzazione dei relativi mercati con la conseguente riscrittura delle regole di riferimento.
 

Diritto di famiglia

Il diritto di famiglia è una branca del diritto privato che disciplina i rapporti familiari in genere: parentela e affinità, matrimonio, i rapporti personali fra i coniugi, i rapporti patrimoniali nella famiglia, la filiazione, i rapporti fra genitori e figli, la separazione e il divorzio.
 

La famiglia nella Costituzione

La Costituzione dedica alla famiglia tre articoli (collocati all'interno del Titolo II intitolato "Rapporti etico-sociali").
L'art. 29 stabilisce che "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare".
L'art. 30 stabilisce che "È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità".
L'art. 31 stabilisce che "La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo".
Da queste tre disposizioni costituzionali si possono desumere alcuni principi:
  • il principio di autonomia della famiglia,
  • il principio di uguaglianza fra i coniugi,
  • il principio di tutela dei figli nati fuori dal matrimonio,
  • il principio dell'autonomia educativa,
  • il principio del sostegno pubblico ai compiti educativi della famiglia.
 

La famiglia nel codice civile

Il codice civile dedica alla famiglia il primo libro del codice intitolato "Delle persone e della famiglia", Titoli V, VI, VII, VIII, IX, IX-bis, X, XI, XII, XIII, XIV.
La maggior parte degli articoli che lo compongono hanno oggi un contenuto profondamente diverso da quello che avevano nel testo originario del 1942.
Il diritto di famiglia codificato nel 1942 concepiva una famiglia fondata sulla subordinazione della moglie al marito, sia nei rapporti personali sia in quelli patrimoniali, sia nelle relazioni di coppia sia nei riguardi dei figli; e fondata sulla discriminazione dei figli nati fuori dal matrimonio (figlio naturale), che ricevevano un trattamento giuridico deteriore rispetto ai figli legittimi.
Il primo libro del codice venne riformato dalla Legge 19 maggio 1975, n. 151 "Riforma del diritto di famiglia"[1], che apportò modifiche tese ad uniformare le norme ai principi costituzionali. Con questa legge venne riconosciuta la parità giuridica dei coniugi, venne abrogato l'istituto della dote, venne riconosciuta ai figli naturali la stessa tutela prevista per i figli legittimi, venne istituita la comunione dei beni come regime patrimoniale legale della famiglia (in mancanza di diversa convenzione), la patria potestà venne sostituita dalla potestà di entrambi i genitori.
Il diritto di famiglia nel corso degli anni subì altre modifiche:
  • la legge n. 431/1967 integrò le norme del codice in tema di adozione e affido, che successivamente vennero riformati con la legge n. 184/1983 e con la legge 149/2001;
  • nel 1970 venne introdotto il divorzio (legge n. 898/1970), la cui disciplina venne modificata nel 1987 (legge n. 74/1987);
  • con la legge n. 121/1985 (legge che rese esecutivo l'accordo del 1984 che modificò il Concordato del 1929) venne modificata la disciplina del matrimonio concordatario;
  • la legge 40/2004 regolamentò la procreazione medicalmente assistita;
  • la legge 54/2006, la c.d. legge sull'affidamento condiviso rivoluziona l'assetto dei rapporti genitori-figli così come disciplinato dal codice civile.
L'interesse morale e materiale del minore diviene linea guida nella decisione del giudice. Questi, nel regolamentare i rapporti figli-genitori, dovrà prediligere, in quanto compatibile con interesse del minore, la soluzione dell'affido condiviso su quello monogentitoriale. Importante è il riferimento del nuovo art. 155 c.c. al diritto del minore, anche in caso di separazione personale dei genitori, di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
 

Separazioni dei coniugi

La separazione personale ha la sua disciplina negli artt. 150-158 del Codice Civile e ha come conseguenza la sospensione dei doveri reciproci dei coniugi (quali ad es: il dovere di coabitazione, il dovere di fedeltà e di collaborazione), eccezion fatta per quelli di assistenza e di reciproco rispetto, che permangono tra i coniugi nonostante l'intervenuta separazione.
La separazione personale, pertanto, determina, quale effetto più evidente, la cessazione della convivenza dei coniugi, ma si ricordi che la semplice ripresa della convivenza, senza alcuna formalità particolare, fa cessare gli effetti della separazione: l'art. 154 c.c, infatti, prevede espressamente che "la riconciliazione tra i coniugi comporta l'abbandono della domanda di separazione personale già proposta", e ciò è possibile in quanto la separazione, al contrario del divorzio, non produce effetti definitivi e quindi non preclude ai coniugi la possibilità di ricostituire il nucleo familiare.
La separazione può essere giudiziale o consensuale, a seconda che sia dichiarata con sentenza dal Giudice o sia oggetto di accordo dei coniugi omologato dal Tribunale. Si evidenzia in questa sede che la materia della separazione (e del divorzio) è stata di recente oggetto di una profonda rivisitazione ad opera della L. 8 febbraio 2006 n. 54, che ha introdotto i concetti di bigenitorialità e di affido condiviso.
 
La separazione personale dei coniugi può essere:
 
1) CONSENSUALE
 
La separazione consensuale è l'effetto di un accordo tra i coniugi che viene successivamente omologato dal giudice. Essa è disciplinata dall'art. 158 c.c., e se anche la decisione dei coniugi di separarsi solitamente trova la sua causa giustificatrice nell'intollerabilità della convivenza, tale elemento non costituisce in questa sede un necessario presupposto, mentre ciò che rileva è la volontà dei coniugi di sciogliere il vincolo matrimoniale, ponendo essi stessi le condizioni della propria separazione.
I coniugi, pertanto, nell'atto di separazione consensuale dettano disposizioni sia per ciò che attiene agli aspetti patrimoniali, quali l' assegno di mantenimento e il diritto di abitazione nella casa coniugale, sia per quanto riguarda l'affidamento dei figli minori, se vi sono.
Al riguardo, l'art. 158 c.c. attribuisce al giudice in sede di omologazione il potere di controllare e verificare la rispondenza delle disposizioni, contenute nell'atto di separazione, all'interesse dei figli minori; qualora il giudice vi ravvisi un contrasto, invita i coniugi ad apportare le modifiche più opportune e, in caso di inidonea soluzione, può rifiutare l'omologazione.
 
2) GIUDIZIALE
 
Come statuisce l'art. 151 c.c, "la separazione giudiziale può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all'educazione della prole".
Pertanto, la separazione giudiziale trova la sua causa nell'intollerabilità della convivenza, e al riguardo la legge non elenca situazioni particolari o comportamenti specifici, in quanto l'accertamento circa la sussistenza di fatti che possano giustificare la separazione è devoluto al giudice.
Innanzitutto, l'intollerabilità della convivenza può derivare dalla grave e persistente violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, per cui comportamenti contrari al dovere di fedeltà o che ledono il coniuge nella dignità, nell'onore o nell'integrità psico-fisica possono legittimare la richiesta di separazione, dal momento che il matrimonio impone a ciascun coniuge di rispettare la personalità dell'altro.
Da un punto di vista processuale, la separazione giudiziale introduce un procedimento contenzioso, più complesso e articolato rispetto al procedimento, più snello e veloce, della separazione consensuale.

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Divorzio

In base all'art. 149 c.c il matrimonio si scioglie o con la morte di uno dei coniugi o con il divorzio, che è stato introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento con la L. n. 898 del 1970, successivamente modificata dalla L. n. 74 del 1987.
Nell'accezione comune, si tende a credere che il divorzio possa essere richiesto soltanto nel caso in cui sia decorso dalla pronuncia della separazione il periodo di tempo previsto alla legge.
In realtà, la legge del 1970 enuclea una serie di ipotesi al verificarsi delle quali uno dei coniugi può domandare il divorzio:
  • quando siano trascorsi tre anni di separazione personale, giudiziale o consensuale;
  • quando ci sia stata condanna dell'altro coniuge, anche per fatti commessi precedentemente al matrimonio, all'ergastolo o alla reclusione superiore ai quindici anni o per determinati gravi reati (es: tentato omicidio a danno del coniuge o di un figlio);
  • quando il matrimonio non è stato consumato;
  • quando l'altro coniuge straniero abbia ottenuto all'estero l'annullamento o lo scioglimento del matrimonio o abbia contratto all'estero nuovo matrimonio;
è passata in giudicato la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso a norma della legge 14 aprile 1982, n. 164;
 
Negli stessi casi, può essere sciolto anche il matrimonio cattolico (ed in tal caso si parla di cessazione degli effetti civili del matrimonio).
Nella prima ipotesi, che è quella che ricorre più frequentemente, i coniugi possono chiedere il divorzio dopo che siano trascorsi tre anni di ininterrotta separazione; è importante precisare che il triennio decorre dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente del Tribunale, ossia dalla prima udienza, e non dalla sentenza di separazione o dall'omologa delle condizioni di separazione consensuale, che intervengono necessariamente in un momento successivo.
Come già evidenziato, la legge istitutiva del divorzio ha introdotto una disciplina organica e articolata volta a regolamentare alcuni aspetti sostanziali che sopravvivono o possono sopravvivere alla cessazione del vincolo, come ad es: il diritto del coniuge economicamente più "debole" ad esigere un assegno di mantenimento dall'altro coniuge, per sé e per gli eventuali figli minori; il diritto dell'ex coniuge, già titolare di un assegno di divorzio, a percepire la pensione di reversibilità - o una quota di essa - e altri emolumenti, quali l'indennità di fine rapporto.
Infatti, in diverse occasioni la Corte di Cassazione (vedi per tutte Cass. Civ. Sez. I° 10/01/2005 n. 285) ha sancito il diritto dell'ex coniuge a percepire, in caso di divorzio, una percentuale del Tfr spettante all'altro coniuge, e questo anche nell'ipotesi in cui l'ex coniuge abbia contratto un nuovo matrimonio: in questo caso, il Tfr si dividerà tra coniuge divorziato e coniuge superstite, in base alla durata del rispettivo rapporto matrimoniale, con alcuni correttivi, riferibili ad altri fattori come l'ammontare dell'assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell'ex coniuge, le condizioni dei soggetti coinvolti o l'eventuale esistenza di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge.
Inoltre il coniuge divorziato, purchè titolare di assegno di divorzio, avrà diritto anche ad una quota della pensione di reversibilità, eventualmente goduta dall'ex coniuge deceduto.
Importante sottolineare che è possibile per i coniugi separati presentare domanda congiunta di divorzio, che da luogo ad un procedimento in camera di consiglio molto rapido, senza alcuna istruttoria, che solitamente si risolve in un'unica udienza.
 

Dichiarazione nullità matrimoniale (Rota Romana)

Il Tribunale Apostolico della Romana Rota si occupa delle cause di nullità matrimoniale, che costituiscono la grande maggioranza delle cause discusse presso la Rota. Esse riguardano i matrimoni contratti con rito cattolico, fra due cattolici oppure fra un coniuge cattolico ed uno ateo o di altra confessione.

Comunemente si parla di "annullamento della Rota", o addirittura di "divorzio cattolico", ma tecnicamente si tratta di un "riconoscimento di nullità". Infatti secondo la dottrina cattolica il matrimonio è uno e inscindibile e pertanto il diritto canonico nega possano sussistere cause a questo riguardo di annullamento o risoluzione. Se invece viene verificata ex post la sussistenza di una causa di nullità, tale da viziare la validità del matrimonio contratto, il tribunale annulla il vincolo e dichiara lo scioglimento dei coniugi dai diritti e dagli obblighi di coniugio.

Nell'individuazione delle cause di nullità, sono certamente ammesse ragioni legate alla natura spirituale del vincolo e perciò la mera formalità di una pur corretta conduzione di un ménage matrimoniale, può ben essere vinta da un'analisi sostanziale che disveli che alla forma non era conseguita sostanziale corretta ricezione spirituale del sacramento da parte di uno o entrambi i coniugi. il tribunale non dichiara inefficace un matrimonio, non ha il potere di annullarlo; stabilisce se un matrimonio era nullo in partenza (nullità "ab initio"), se un matrimonio realmente non c'è mai stato, e questo, perché esisteva almeno una condizione da non renderlo tale.

Ad esempio, in presenza di un matrimonio combinato, in cui l'unione non è frutto di una libera scelta dei coniugi, nonostante la cerimonia e che questo sia rato e consumato, questi non sono mai stati sposati. Il tribunale canonico non annulla il matrimonio, accerta che per questa causa un matrimonio non c'è mai stato.

Il vizio di nullità può essere riconosciuto anche in fatti precedenti o prodromici al matrimonio, caso tipico essendone la mancanza di alcune condizioni oggettive ritenute in dottrina essenziali al buon esito del legame. Sono i cosiddetti "impedimenti dirimenti", resi celebri ne "I Promessi Sposi" da Don Abbondio che ne riassume a Renzo la sequenza: «Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis, ...».

La somministrazione del sacramento matrimoniale non ha l'effetto di unire i coniugi in un vincolo davanti a Dio, se manca la volontà e la consapevolezza di contrarre gli impegni che derivano da un matrimonio religioso, e di farlo insieme all'altro coniuge. Questi impegni riguardano principalmente i cosiddetti tria bona matrimonii, ovvero bonum sacramenti (indissolubilità del vincolo coniugale), bonum prolis (apertura alla nascita di figli), bonum fidei (accettazione del vincolo esclusivo di fedeltà all'altro coniuge), ma si considerano anche l'accettazione della sacramentalità del vincolo ed il cosiddetto bonum coniugum, ovvero l'attribuzione all'altra parte della dignità e delle prerogative di coniuge, che comprendono le questioni di talamo.

Il diritto canonico individua altri casi in cui è lecita la dichiarazione di nullità, fra i quali: matrimonio imposto contro la volontà di uno o entrambi i coniugi; incapacità psicologica a di effettuare una vera scelta coniugale ed incapacità psicologica di adempiere agli obblighi sopra ricordati; sono poi considerati capaci di viziare la regolarità del vincolo la condizione e l'errore al momento del consenso. La funzione riproduttiva connessa al matrimonio cattolico consente l'ammissibilità di istanze fondate sulla mancata consumazione materiale dello stesso.

Le persone il cui matrimonio religioso è stato riconosciuto nullo dal Tribunale Apostolico della Romana Rota, sono libere di risposarsi una seconda volta in forma religiosa, anche se ad alcune di esse può essere comminato un divieto amministrativo a contrarre nuove nozze senza il consenso della Curia di appartenenza. Per la Chiesa cattolica la nullità significa che matrimonio non vi è stato, pertanto esse non sono mai state sposate prima e sono quindi libere di creare un nuovo legame.

Le istanze di dichiarazione di nullità del matrimonio sono in genere informalmente inoltrate al Vicario Giudiziale della propria Diocesi che provvede ad indirizzare gli interessati nell'adizione della procedura. Presso il Tribunale Apostolico della Rota Romana è tenuto un albo degli avvocati rotali, che possono patrocinare in ogni tribunale ecclesiastico senza limiti di territorialità.

In Italia, anche a seguito del c.d. Concordato, la dichiarazione di nullità del matrimonio religioso non comporta l'immediato annullamento del matrimonio civile, perché lo Stato italiano deve accogliere la sentenza ecclesiastica attraverso una procedura detta delibazione.
 

Diritto lavoro e previdenza

Il diritto del lavoro si occupa di disciplinare tutte le materie attinenti al rapporto di lavoro inteso in senso ampio. Quindi spazia dalla regolamentazione delle relazioni tra datore di lavoro e lavoratore a quella delle relazioni sindacali (oggetto propriamente del diritto sindacale) a quella attinente alle assicurazioni sociali e previdenziali (di cui si occupa il diritto della previdenza e della sicurezza sociale)
Si tratta di una delle branche del diritto che più direttamente risente dell'influenza della situazione politica generale, occorrendo tradurre in norme e concetti legislativi le concezioni ideologiche o statalistiche del sistema di riferimento.
In Italia, negli anni 1970 fu sviluppato, principalmente ad opera di alcuni giuristi come Gino Giugni, il c.d. Statuto dei lavoratori, di cui alla legge 20 maggio 1970, n. 300.
Nel 1993 ebbe avvio l'imponente fenomeno (dal punto di vista giuridico) della privatizzazione del diritto del lavoro pubblico in Italia, di cui al D. Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, poi confluito nel Testo unico D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
La liberalizzazione del mercato del lavoro privato risale invece all'anno 2003, e precisamente alla legge 14 febbraio 2003, n. 30, meglio conosciuta come legge Biagi, dal nome del giurista che si dedicò alla scrittura della stessa, il Prof. Marco Biagi). Anche questa riforma, completata dal D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, si può paragonare per portata e svolta a quelle del 1970 e del 1993.
 

Licenziamento individuale:

 
Il licenziamento individuale è una delle cause che determinano la cessazione del rapporto di lavoro e, più esattamente, rappresenta l'esercizio del diritto potestativo di recesso da parte del datore di lavoro.
In base al combinato disposto degli artt. 1 della L. 604/1966, 18 dello Statuto dei Lavoratori e 2 della Legge 108/1990, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. ovvero per giustificato motivo.
La giusta causa di licenziamento ricorre quando il lavoratore ponga in essere comportamenti di tale gravità da configurare, soggettivamente ed oggettivamente, una grave ed irrimediabile negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e della fiducia insita nello stesso.
Per quanto riguarda il giustificato motivo, occorre preliminarmente distinguere la natura soggettiva o oggettiva del motivo stesso.
Secondo quanto espressamente sancito dall'art. 3 della L. 604/1966, ricorre l'ipotesi del giustificato motivo soggettivo, ogniqualvolta sussiste un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore.
Seppur sottile, la differenza tra giustificato motivo soggettivo rispetto alla giusta causa di recesso deve essere ravvisata nel fatto che possono costituire giustificato motivo soggettivo solo ed esclusivamente i comportamenti del lavoratore inerenti alla sfera del contratto di lavoro.
Si realizza, invece, il giustificato motivo oggettivo, quando il licenziamento del prestatore di lavoro è determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (art. 3 della L. 604/1966).
Va, altresì, precisato che la Legge 604/1966, oltre al limite sostanziale relativo alla necessita di una giusta causa o di un giustificato motivo, pone quale ulteriore limite al potere di licenziamento quello della forma dell'atto con il quale tale potere viene esercitato. Infatti l'art. 2 della citata legge (come novellata dalla Legge 108/1990) stabilisce, a pena di inefficacia, che il licenziamento venga comunicato al lavoratore in forma scritta. Non è invece indispensabile la contestuale indicazione dei motivi del licenziamento che, possono essere richiesti dal lavoratore entro quindici giorni dalla comunicazione del licenziamento e, in questo caso il datore di lavoro deve comunicarli per iscritto entro sette giorni dalla richiesta.
 
Dimissioni:  
Le dimissioni sono l'atto con cui un lavoratore dipendente recede unilateralmente dal contratto che lo vincola al datore di lavoro.
Nell'ordinamento italiano, le dimissioni si configurano come una facoltà del lavoratore, che può essere esercitata senza alcun limite, con il solo rispetto dell'obbligo di dare il preavviso previsto dai contratti collettivi.
Le dimissioni consistono in un atto volontario del lavoratore. La volontà del dipendente non deve quindi essere viziata (ad esempio da altrui minacce o raggiri, da errore, da incapacità), pena l'annullabilità dell'atto.
L'atto ha effetto al momento in cui viene a conoscenza del datore di lavoro. Non rileva in alcun modo l'eventuale dissenso del datore. L'eventuale revoca delle dimissioni è efficace, secondo le regole generali (art. 1328 c.c.), solo se è comunicata al datore di lavoro prima che quest'ultimo abbia avuto notizia dell'atto di recesso.
La legge italiana non prevedeva forme particolari per le dimissioni, che potevano, quindi, essere presentate anche oralmente. I requisiti di forma sono, però, spesso dettati dai contratti collettivi, che possono imporre l'onere della forma scritta a tutela del lavoratore.

 

Risarcimento del danno

Risarcimento del danno per fatto illecito (art. 2043 c.c.): Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.

Elementi della normativa della responsabilità civile:
1. danno subito da altro soggetto: il danno (perdita che il soggetto subisce) può essere:
a) danno patrimoniale:
- danno emergente: effettiva diminuzione di patrimonio del danneggiato;
- lucro cessante: mancato guadagno del danneggiato;
b) danno non patrimoniale:
- danno che il soggetto patisce a seguito della violazione di un valore della personalità umana;
- non suscettibile di diretta valutazione economica, ma di valutazione equativa.
Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge (art.2059 c.c.). Più frequenti sono i danni derivanti da reato. Il danno non patrimoniale si somma al danno patrimoniale (es. professionista dileggiato).
2. danno ingiusto: contrario al diritto e quindi atipico
a) danno che viola una regola giuridica (es. lesioni personali, diffamazione);
b) danno che lede un interesse protetto dal diritto (diritto soggettivo).
Se esistono interessi protetti contrapposti (es. diritto all’informazione e diritto alla riservatezza) c’è una valutazione comparativa dei due interessi contrapposti in base al criterio di pubblica utilità. C’è stato un intervento del legislatore con la legge sulla tutela dei dati personali (L.675/96) che obbliga chi utilizza dati personali ad informare l’interessato e ad avere il suo consenso. È previsto un regime speciale per l’attività giornalistica.
Se si presenta un danno lesivo della riservatezza ad opera di banche dati, il cui esercizio di attività è considerato pericoloso, esse rispondono anche senza colpa per il solo rischio d’impresa.
3. nesso di causalità tra fatto e danno: il danno è risarcibile solo se è conseguenza del fatto dannoso. Criteri sono:
a) causalità materiale: il fatto come condizione necessaria del danno;
b) causalità giuridica: ragionevole probabilità, secondo criteri di regolarità statistica, che quel fatto produca quel danno. Causalità diretta ed immediata.
Il concorso fortuito di situazione occasionale esclude il nesso di causalità solo in casi eccezionali (giurisprudenza rigorosa).
4. anteriorità del fatto alla capacità di intendere e volere (imputabilità):
Il danno non obbliga al risarcimento se il soggetto era privo della capacità di intendere e di volere (capacità naturale) nel momento in cui ha compiuto il fatto. L’incapace risponde però se lo stato di incapacità dipende da sua colpa (art.2046 c.c.). Risponde in sua vece chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace (art.2047 c.c.).
5. fatto compiuto senza una causa di giustificazione: il danno non deve essere risarcito se il fatto è stato compiuto in circostanze idonee a giustificarlo:
a) esercizio del diritto:
clausola generale
dove chi esercita un proprio diritto non commette un comportamento antigiuridico (es. informazione bancaria sulla correttezza di un imprenditore);
b) consenso dell’avente diritto: non è responsabile chi lede un diritto altrui se è stato autorizzato dallo stesso danneggiato. I diritti personali alla vita, alla salute, alla integrità fisica, all’onore, alla libertà non sono disponibili;
c)
legittima difesa
: non è responsabile chi causa il danno per difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata alla offesa (art.2044 c.c.). L’eccesso di legittima difesa è il comportamento non proporzionato all’offesa;
d) stato di necessità: non è responsabile chi causa un danno per la necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alle persone se il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né altrimenti evitabile (art.2045 c.c.). Il giudice può distribuire il danno.
6. danno addebitato al soggetto in base a due distinti criteri:
a) dolo o colpa dell’autore del fatto.
b) rischio che la legge accolla all’autore del fatto.
Dolo: coscienza o volontà di cagionare il danno; - dolo commissivo (dolo attivo);
- dolo omissivo (dolo passivo) es. passante che non interviene.

Colpa
: come mancato impegno della diligenza richiesta per un certo tipo di attività.
Negligenza, imprudenza o imperizia, quindi inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
I gradi della colpa sono:
- colpa grave: mancanza di diligenza minima (es. danno causato dal Giudice);
- colpa lieve: mancanza di diligenza media (responsabilità contrattuale);
- colpa lievissima: mancanza di
diligenza
massima (colpa richiesta nella RC).
Principio di carattere generale era che non c’è responsabilità senza colpa. La colpa deve essere provata dal danneggiato. È stata inserita la colpa presunta. Ci può quindi essere responsabilità senza colpa (oggettiva).
Nella responsabilità per colpa presunta l’autore del fatto ha l’onere della
prova liberatoria (es. responsabilità dei sorveglianti degli incapaci art.2047 c.c.); tramite la prova liberatoria deve dimostrare di non aver potuto impedire il fatto.
Responsabilità dei genitori: i genitori rispondono del fatto illecito del loro figlio minorenne se non emancipato se abita con loro (art.2048 c.c.). Sono responsabili in solido con il figlio minore.
Prova liberatoria è di non aver potuto impedire il fatto. Necessaria la prova di un’adeguata educazione e vigilanza.
Responsabilità degli insegnanti: gli insegnanti rispondono dei fatti illeciti compiuti dagli alunni e apprendisti se compiuti sotto la loro vigilanza. Prova liberatoria come le altre responsabilità.
Responsabilità per circolazione di autoveicoli: il conducente è responsabile dei danni. Prova liberatoria è l’aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Ad essa si aggiunge la responsabilità solidale del proprietario. Prova liberatoria è che l’autoveicolo circolava contro la sua volontà.

 

Risarcimento danni da incidente stradale

 
IL RISARCIMENTO DIRETTO

COSA E' IL RISARCIMENTO DIRETTO?

Il risarcimento diretto è la nuova procedura di rimborso assicurativo che dal 1° febbraio 2007 in caso di incidente stradale consente ai danneggiati non responsabili, in tutto o in parte, di essere risarciti direttamente dal proprio assicuratore.

COSA CAMBIA IN PRATICA?

Dal 1° febbraio 2007, dovrai presentare sia la denuncia che la richiesta di risarcimento alla tua Compagnia che, una volta accertata la tua totale o parziale ragione, ti risarcirà i danni.

QUANDO SI APPLICA IL RISARCIMENTO DIRETTO?

In caso di scontro tra due veicoli a motore, entrambi con targa italiana, e regolarmente assicurati con Compagnie che aderiscano al risarcimento diretto (tutte le Compagnie italiane sono obbligate ad aderire al sistema). Tale procedura non si applica alle macchine agricole.

La procedura del risarcimento diretto si può applicare anche se nell'incidente siano stati coinvolti passeggeri.
Per i danni subiti dai passeggeri, la richiesta di risarcimento va presentata sempre all'assicuratore del veicolo su cui erano a bordo.


COME ATTIVARLO?

Presentare  la denuncia, compilata utilizzando il MODULO BLU e la RICHIESTA DI RISARCIMENTO ALLA PROPRIA COMPAGNIA che, una volta accertata la totale o parziale ragione del proprio assicurato, risarcirà i danni.

COSA VIENE RISARCITO?

- i danni al veicolo e gli eventuali danni connessi al suo utilizzo (es. fermo  tecnico, traino, ecc.);
- le lesioni di lieve entità subite del conducente (fino al 9% di invalidità);
- i danni alle cose trasportate appartenenti al proprietario o al conducente.


QUANDO NON SI APPLICA IL RISARCIMENTO DIRETTO?

Non è possibile avvalersi di questa procedura di rimborso diretto
in caso di:
- incidente accaduto all'estero
- incidente con più di due veicoli
- danni gravi alla persona del conducente: in questo caso, la procedura può tuttavia applicarsi al rimborso per i danni al veicolo e alle cose trasportate, mentre per i danni gravi alla persona occorre rivolgersi alla compagnia del veicolo responsabile
- incidente tra un veicolo a motore ed uno ad altra propulsione (es. velocipede)
- incidente che coinvolga ciclomotori o macchine agricole o operatrici non muniti di targa ai sensi del DPR 6 marzo 2006, n. 153
- incidente relativamente al quale non vi è stata collisione tra i due veicoli coinvolti
- danni a cose situate all'esterno del veicolo
- danni a cose trasportate non appartenenti all'assicurato o al conducente
- lesioni a pedoni e/o ad altre persone non trasportate
- incidente che coinvolga veicoli immatricolati all'estero
- incidente con veicolo non identificato o non assicurato.

 

Diritto commerciale

Il diritto commerciale è quella branca del diritto privato che comprende varie ed articolate materie legate agli aspetti giuridicamente rilevanti delle attività economiche. Più in particolare, regola ed ha per oggetto gli atti e le attività dell'impresa. Può quindi essere definito come il diritto privato delle imprese.
In Italia, le sue fonti sono contenute nel Codice civile o in leggi speciali. Ciò si differenzia da quanto accade in altri ordinamenti giuridici, che dispongono di un vero e proprio Codice di Commercio, speciale rispetto al codice civile e dedicato espressamente alla materia commercialistica.
Il diritto commerciale studia, quindi, nei loro vari aspetti, l'attività imprenditoriale e l'esercizio dell'impresa, sia ad opera del singolo, sia ad opera di un gruppo organizzato (come, ad esempio, società o consorzi). Al diritto in parola pertengono altresì gli studi sull'azienda, sulle procedure concorsuali, sulla regolamentazione dei contratti d'impresa, sui titoli di credito (es. assegni, cambiali), sui segni distintivi e sui diritti di privativa, sulle modalità di repressione della concorrenza sleale.
Inoltre, la sempre maggiore complessità dei fenomeni economici e giuridici comporta che ci s'interessi non solo degli aspetti "privatistici" dell'attività d'impresa, ma si ampli lo spettro d'analisi anche ad ambiti in cui il mondo imprenditoriale viene a rapportarsi con i poteri pubblici, nazionali e sovranazionali (basti pensare al ruolo che svolgono le istituzioni comunitarie). Ecco dunque aperti nuovi ambiti di studio, quali quello sulla regolamentazione dei mercati e della concorrenza, oppure quello delle politiche di antitrust, tutti settori che poco si prestano ad essere incasellati nella categoria del diritto privato, stante la rilevanza, in essi, d'interessi pubblici ed il conseguente intervento di pubblici poteri per la loro tutela, come sopra evidenziato.
Parlando di diritto commerciale ci si riferisce quindi, in senso generale, al diritto degli affari e alle regole del mercato volute dal legislatore per regolamentarne i fenomeni e la vita.
La materia è caratterizzata da una costante esigenza di aggiornamento. Si afferma, talvolta, che il mercato sarebbe in buona parte disciplinato dalla cosiddetta lex mercatoria, per cui sarebbero i "grandi mercanti" (multinazionali, banche, istituzioni finanziarie) a dettare le regole, in forza delle loro posizioni dominati sui mercati di riferimento. La lex mercatoria, prodotta da gruppi detentori di un fattuale potere economico, si sostituirebbe così alle ordinarie e "tradizionali" fonti legislative politiche.
Gli strumenti giuridici utilizzati dalle imprese hanno sempre avuto la caratteristica di adattarsi alle mutevoli esigenze del mercato con una particolare rapidità, che anticipa spesso l'operato dei legislatori; legislatori, tra l'altro, sempre più in competizione, per attrarre gli investimenti internazionali (si parla di "concorrenza tra ordinamenti"). È, infatti, proprio questo continuo rinnovarsi ad una velocità sconosciuta ad altre branche del diritto, per l'intervento dei singoli attori dell'economia, a caratterizzare dalle sue origini il diritto commerciale ed a guidarne l'evoluzione.
In Italia, la riforma del "diritto delle società" entrata in vigore il primo gennaio 2004, ha comportato notevoli modifiche alla precedente disciplina del settore.

 

Diritto dei minori

- Affido e adozioni;
- Violenze e abusi;
- Minori stranieri;
- Minori e media.
 

 

Diritto canonico

Il diritto canonico è costituito dall’insieme delle norme giuridiche formulate dalla Chiesa cattolica, che regolano l’attività dei fedeli nel mondo nonché le relazioni inter-ecclesiastiche e quelle con la società esterna. Non va confuso con il diritto ecclesiastico, che è il diritto con cui gli stati temporali (o secolari) regolano i loro rapporti con le varie confessioni religiose.
In sostanza è costituito da quell’insieme di norme che:
  • creano i rapporti giuridici canonici, i quali riguardano la situazione giuridica dei fedeli all’interno del corpo sociale della Chiesa;
  • regolano tali rapporti;
  • organizzano la gerarchia degli organi componenti la Chiesa e ne regolano l’attività;
  • valutano e regolano i comportamenti dei fedeli.
Nonostante ovviamente sia radicato su una religione ben definita, il diritto canonico si discosta molto dalla shari'a islamica o dal diritto ebraico per essere molto vicino al diritto secolare degli stati, ma allo stesso tempo non assume un'identità statale in quanto è destinato ad una massa di fedeli stanziata in tutto il mondo e non distribuita all'interno d'un territorio ben definito: parallelamente è distante dal concetto di stato anche perché il diritto canonico proviene ed è diretto ad un altro mondo e non quello terreno. Elemento caratterizzante della legge canonico è quindi la persona.
Le norme di diritto divino sono ritenute dalla Chiesa di fonte divina (es.: la Rivelazione) per cui si ritiene siano assolutamente inderogabili da leggi umane, civili o ecclesiastiche; quelle di diritto umano scaturiscono, invece, dal volere delle autorità costituite dalla Chiesa per il governo della comunità dei fedeli quali ad esempio il Papa e il Concilio Ecumenico.
Larga parte del diritto canonico moderno è stata pubblicata su fonti ufficiali, resta però una fetta di diritto canonico meno conosciuta, ma altrettanto valevole e autorevole per chi ne segue i precetti, diffusa tramite fonti ufficiose. Un esempio di questa seconda frangia di diritto canonico lo si può riscontrare nel documento Crimen sollicitationis.
 
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